Femminismo e veganesimo. Due tematiche che possono sembrare molto distanti, ma che in realtà sono accomunate dal rispetto e dalla lotta a un sistema che in qualche modo riesce sempre a schiacciare il genere femminile. La sottomissione della donna è chiara ormai a tutti. La vediamo nella cronaca di tutti i giorni, con le tante notizie di donne che muoiono per mano di uomini, spesso loro partner o ex partner, ma anche dai dati inerenti il lavoro che ci mostrano come le professioniste siano in molti casi pagate meno dei loro colleghi uomini e solo di rado assunte per ruoli apicali. Ciò di cui si parla meno è, invece, lo sfruttamento delle femmine nella produzione di alimenti destinati al consumo umano. Tutti gli animali rinchiusi nei tanti allevamenti intensivi che ci circondano non possono che passare una vita breve e sofferente, ma a subire le maggiori vessazioni sono proprio le femmine, considerate come procreatrici e, quindi, principale fonte di profitto.

Le vacche da latte

Come possiamo immaginare, a fare delle femmine le vittime preferite dell’industria zootecnica è la loro capacità riproduttiva per la quale saranno sfruttate per il più lungo tempo possibile. Pensiamo alle vacche da latte, ad esempio. Come tutti i mammiferi, la mucca produce il latte dopo il parto, per nutrire il proprio vitello. Per avere una produzione sufficiente a foraggiare le industrie casearie, l’animale viene, quindi, inseminato artificialmente e sarà costretto a subire una gravidanza di nove mesi ogni anno. La mungitura continua della vacca la costringe alla produzione di una quantità di latte pari a 10 volte quello che sarebbe necessario in natura per nutrire il vitello, che negli allevamenti intensivi, viene alimentato con latte artificiale per poi essere ucciso per la sua carne. Le prospettive di vita di queste mucche è inevitabilmente più breve di quanto lo sarebbe in natura: all’età di 5 o 6 anni, quando la loro produzione di latte diminuisce, sono destinate al macello.

Le scrofe

Un ruolo simile è quello assegnato alle scrofe. Nei frigoriferi dei più comuni supermercati, troviamo il frutto di vite scandite da inseminazioni artificiali da cui non sono esenti nemmeno i maiali. Le femmine trascorrono i mesi della gravidanza nelle cosiddette “gabbie di gestazione”, spazi angusti che non permettono loro alcun movimento, mentre, pochi giorni prima del parto, vengono trasferite nelle “gabbie di allattamento”, angoli delimitati da sbarre di metallo in cui sono costrette a rimanere sdraiate tutto il tempo. Una volta terminata questa fase, i suinetti passeranno alla fase dell’ingrasso e la madre sarà nuovamente inseminata.

Le galline ovaiole

Infine, le galline ovaiole. Dai dati dell’Anagrafe Nazionale Zootecnica 2022, le galline ovaiole confinate in sistemi di allevamento in gabbie rappresentano il 36% di tutte le galline allevate per la produzione di uova, circa, quindi, 16 milioni di animali. Nonostante la legislazione europea abbia proibito le gabbie convenzionali”, le gabbie cosiddette “arricchite” non danno comunque alla gallina la possibilità di comportarsi secondo natura. Tra i danni causati all’animale, l’indebolimento dell’apparato muscolo-scheletrico, l’assunzione di comportamenti stereotipati e la comparsa di patologie gravi che dipendono dall’assenza di movimento.

A prescindere dalla specie, il genere femminile è, il più delle volte, quello che versa nelle condizioni peggiori. Quando portiamo avanti una campagna contro la violenza maschile contro le donne, ricordiamoci anche di tutti quegli esseri viventi di genere femminile che soffrono ogni giorno nell’indifferenza più totale.

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